Le note a sentenza sono strutturate come articoli di dottrina ed analizzano, anche in chiave critica, pronunce di merito e di legittimità di interesse e rilievo notarile.
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Cassazione Civile, sez. II, 26 luglio 2023, n. 22566 - Pres. Giusti - Est. Tedesco
I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, secondo comma, cod. civ., spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare.
La Corte di cassazione, nella pronunzia del 26 luglio 2023, n. 22566, oggetto del presente commento, affronta la vexata quaestio relativa al riconoscimento, in capo al coniuge separato senza addebito, dei diritti di abitazione e di uso sulla precedente residenza familiare, affermando, in contrasto con i precedenti giurisprudenziali di legittimità, che tali diritti gli spettino sempre, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto qualsivoglia collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare.
1. Il caso
Il caso, sottoposto all’attenzione del Supremo Collegio, trae la sua origine da una causa di divisione giudiziale, instauratasi tra la moglie e i tre figli del de cuius, deceduto ab intestato, durante la quale si è discusso in merito all’eventuale riconoscimento, in favore del coniuge superstite, dei diritti di abitazione e di uso sull’appartamento comune, e i mobili a corredo, già adibito a residenza della famiglia.
La Corte di appello di Brescia, sul presupposto che, all’apertura della successione, i due coniugi fossero già giudizialmente separati, ha negato il riconoscimento, alla moglie, dei predetti diritti sull’immobile, il quale, stante la sua indivisibilità e secondo quanto stabilito dal Tribunale di primo grado, doveva essere venduto al fine di ripartire tra i successori il ricavato.
La Suprema Corte di cassazione, nel caso di specie, censura la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di appello di escludere il riconoscimento dei diritti di cui all’art. 540, secondo comma, cod. civ. in capo al coniuge superstite separato giudizialmente senza addebito, e lo fa seguendo due diverse direttrici: da un lato, il Supremo Collegio afferma che la qualificazione del coniuge superstite come separato non sia attinente al caso di specie, poiché, al momento dell’apertura della successione, il giudizio di separazione era ancora in corso, non essendo intervenuta alcuna sentenza per concluderlo, ma solo dei provvedimenti presidenziali provvisori; dall’altra parte, il dato di maggior rilievo è che la Corte, pur potendosi fermare a quanto detto, decide di andare oltre e di contraddire apertamente ed espressamente il principio di diritto, condiviso dalla Corte di appello e, soprattutto, da tutte le precedenti pronunce di legittimità, secondo il quale la separazione legale dei coniugi implica, necessariamente, il venir meno del presupposto per la nascita dei diritti di abitazione e di uso, divenendo impossibile, a seguito della separazione, individuare una casa adibita a residenza familiare, allorché i coniugi abbiano smesso di coabitare.
La Corte, nella sentenza in commento, ritiene invece che i diritti in questione spettino anche al coniuge separato senza addebito, ad eccezione dei soli casi in cui, dopo la separazione e prima dell’apertura della successione, l’immobile adibito a residenza familiare sia abbandonato da entrambi i coniugi o, in ogni caso, abbia perduto qualsivoglia collegamento con l’originaria destinazione familiare; di conseguenza, il coniuge superstite si vedrebbe riconosciuti tali diritti in tutti quei casi in cui, nella casa familiare, per le più varie ragioni o secondo gli accordi intercorsi, siano rimasti entrambi i coniugi, o anche uno solo dei due, con o senza i figli.
2. I diritti di abitazione e di uso del coniuge superstite
L’art. 540, secondo comma, cod. civ. attribuisce al coniuge superstite, o alla parte superstite dell’unione civile, anche quando concorra con altri chiamati, in aggiunta alla quota di riserva in proprietà piena, il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e il diritto di uso sui mobili a suo corredo, se di proprietà del defunto o comuni (1); sebbene l’opinione quasi unanime della dottrina e della giurisprudenza sia nel senso che i diritti in esame configurino un’ipotesi di successione legale a titolo particolare(2), vivacemente discussa è, invece, la loro qualificazione in termini di legati ex lege o di prelegati: l’opinione preferibile è la prima (3). Difatti, il legislatore prevede una specifica modalità di distribuzione del peso di tali attribuzioni, che gravano anzitutto sulla disponibile e, ove questa risulti insufficiente, sulla quota di riserva del medesimo coniuge e, ancora, in subordine, su quella dei figli, cosicché tale meccanismo risulta incompatibile col metodo di funzionamento del prelegato, che, secondo quanto previsto dall’art. 661 cod. civ., grava proporzionalmente su tutti i coeredi (4).
Quanto alla ratio sottesa ai diritti in esame, è stato precisato che, mediante il loro riconoscimento,
«il legislatore ha inteso tutelare non solo l’interesse economico del coniuge superstite a disporre di un alloggio, ma anche l’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e di consuetudine con la casa familiare, oltre che al mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio (5)».
Nel disposto dell’art. 540, secondo comma, cod. civ. si rivengono i due presupposti, uno oggettivo e l’altro soggettivo, che, cumulativamente, devono sussistere ai fini dell’insorgenza dei diritti di abitazione e di uso: il primo, non direttamente rilevante ai nostri fini, consiste nell’appartenenza della casa adibita a residenza familiare al de cuius o ad entrambi i coniugi, o parti dell’unione civile (6); il secondo presupposto, invece, si sostanzia nella sussistenza, al momento dell’apertura della successione, di un valido rapporto di matrimonio, o di una valida unione civile (7).
Il problema risiede proprio nell’indicazione, genericamente formulata, del coniuge quale titolare dei diritti in oggetto.
Di sicuro tali diritti non spettano al coniuge divorziato, che non è più coniuge, il quale può solo sperare di ottenere, ove ne ricorrano i presupposti, l’assegno di cui all’art. 9-bis, L. 1° dicembre 1970, n. 898, e nemmeno debbono essere riconosciuti al coniuge separato con addebito a suo carico, poiché egli potrà ricevere, al più, l’assegno di cui agli artt. 548 e 585, secondo comma, cod. civ., nei limiti, con le modalità e i presupposti ivi indicati.
La formulazione sbrigativa del presupposto soggettivo dei diritti di abitazione e di uso è ciò che dà origine alla vexata quaestio riguardante il loro riconoscimento in favore del coniuge che, al momento dell’apertura della successione, si trovi ad essere separato legalmente dal defunto, ma senza addebito a proprio carico; la complessità del problema è acuita dal contrasto sussistente tra i seguenti elementi: da una parte, gli artt. 548 e 585, primo comma, cod. civ. attribuiscono al coniuge separato senza addebito i medesimi diritti successori riconosciuti al coniuge non separato; dall’altra parte, però, l’art. 540, secondo comma, cod. civ. riconosce un diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare la cui ratio, consistente nel soddisfacimento dell’interesse morale alla conservazione dei rapporti affettivi e di consuetudine col luogo in cui si è svolta la comunione di vita dei coniugi, mal si concilia con un’attribuzione, di tale diritto, al coniuge separato, benché senza addebito.
In definitiva, in via di prima approssimazione, la scelta che si prospetta è la seguente: ove si voglia far prevalere il riferimento alla medesimezza dei diritti successori del coniuge non separato con quello separato senza addebito, si sarà portati a riconoscere i diritti di abitazione e di uso anche in favore di quest’ultimo; ove, invece, si desideri dare risalto al fondamento della norma in esame, si sarà maggiormente portati ad escludere tale riconoscimento, poiché è evidente che la ratio in questione difficilmente si attaglia alla separazione dei coniugi, la quale dà luogo alla disgregazione, benché non necessariamente definitiva, della compagine familiare, che, tendenzialmente, non possiederà più una residenza nel senso di cui all’art. 144 cod. civ.
3. Le posizioni della dottrina
Le interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali anteriori rispetto alla pronuncia in commento registrano, tra di loro, una divaricazione: difatti, se da un lato la dottrina, o almeno parte di essa, si è dimostrata più possibilista, seppur con sfumature diverse, nel riconoscere i diritti in oggetto al coniuge separato senza addebito, viceversa, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha sempre adottato un atteggiamento più rigido e rigoroso.
Più nello specifico, quanto alla dottrina, si può osservare come i diversi orientamenti emersi nel corso del tempo possano essere ricondotti, in sostanza, a tre diversi filoni interpretativi (8); il primo di questi esclude in radice l’attribuibilità di tali diritti al coniuge superstite, poiché lo stato di separazione determinerebbe, di necessità, la mancanza dell’effettiva esistenza di una casa familiare, che costituirebbe, invece, il requisito fondamentale richiesto dalla legge per l’insorgenza dei diritti di abitazione e di uso (9).
La seconda interpretazione si pone agli antipodi della prima, e ritiene che i diritti in esame non competano al coniuge separato superstite solo nell’ipotesi in cui l’originaria residenza comune sia stata abbandonata da entrambi i coniugi; pertanto, tali diritti sorgerebbero, invece, qualora almeno uno dei due coniugi sia rimasto ad abitarla fino all’apertura della successione, indipendentemente dal fatto che si tratti del coniuge superstite o di quello premorto(10).
Vi è, infine, l’orientamento intermedio, talvolta definito come prevalente (11) e preferibile (12), il quale ritiene che «il coniuge superstite sia titolare dei diritti in esame, nonostante la separazione, ogni qual volta abbia continuato a vivere nella casa già adibita a residenza familiare, in forza di accordo con l’altro coniuge o per disposizione del giudice(13)»; dunque, mentre il secondo orientamento privilegia fortemente il dato dell’equiparazione fra i diritti successori del coniuge separato senza addebito con quelli del coniuge non separato secondo il disposto degli artt. 548 e 585, primo comma, cod. civ., viceversa, la terza interpretazione si colloca in una posizione mediana ed equidistante all’interno del menzionato conflitto tra tale equiparazione e la ratio dell’art. 540, secondo comma, cod. civ., limitando il riconoscimento dei diritti d’abitazione e d’uso ai casi in cui i due coniugi, o solo il coniuge superstite, abbiano continuato a vivere nella residenza familiare anche dopo la separazione, ed escludendo, pertanto, che tali diritti possano essere riconosciuti al coniuge superstite ove sia stato proprio quest’ultimo a lasciare la precedente casa coniugale.
Da non trascurare sono i casi in cui i coniugi, prima di separarsi legalmente, abbiano generato dei figli, dacché, a fronte della crisi della compagine familiare, l’autorità giudiziaria, oltre a disporre l’affidamento condiviso od esclusivo di questi ultimi, disciplina, ai sensi dell’art. 337-sexies cod. civ., il godimento della casa familiare: con i figli, infatti, potrebbe continuare a convivere il genitore che poi premorrà, oppure l’altro, mentre appare inverosimile l’ipotesi in cui, a fronte della separazione e dei provvedimenti del giudice, sia i coniugi che i figli continuino a vivere tutti nella medesima unità abitativa. Nel primo caso, dove il coniuge superstite non convive con i figli al tempo dell’apertura della successione, i diritti di abitazione e di uso gli spetterebbero alla luce del secondo orientamento, ma non in base al terzo(14); qualora, invece, sia il coniuge superstite a convivere con la prole, gli verrebbero riconosciuti tali diritti a prescindere che si opti per l’una o per l’altra delle due posizioni dottrinali in questione (15); nell’ultimo caso, improbabile ma non impossibile, ove entrambi i genitori, nonostante la separazione, convivano, al momento dell’apertura della successione, con i figli, è chiaro che, rispetto alle ipotesi precedenti, risulta più semplice riconoscere al coniuge superstite i diritti di abitazione e di uso, nonostante la comunione dei coniugi sia stata intaccata dalla loro separazione consensuale o giudiziale.
4. La giurisprudenza precedente
Come è stato anticipato, all’interno del tema in oggetto, l’interpretazione giurisprudenziale, complessivamente, è sempre stata piuttosto rigida; più nel dettaglio, quanto alla giurisprudenza di merito, si registrano due interventi, non recenti, entrambi di segno contrario al riconoscimento dei diritti di abitazione e di uso al coniuge separato, non legalmente, ma, solo, di fatto (16); quanto alle pronunce della Suprema Corte, invece, sono tre gli interventi che precedono la sentenza in commento(17).
Le prime due sentenze, in ordine cronologico, emanate a qualche mese di distanza l’una dall’altra, sono caratterizzate da una medesimezza del dictum giudiziale e da una stretta somiglianza delle vicende concrete che hanno occasionato le pronunce di legittimità: sotto quest’ultimo profilo, in entrambi i casi i due coniugi si erano separati consensualmente cinque anni prima dell’apertura della successione e, pertanto, la casa familiare, al momento del decesso del coniuge, risultava non abitata dal coniuge superstite(18); sotto il primo profilo, la Corte, in entrambi i pronunciamenti, statuisce che, in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare comporta il venir meno del presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione dei diritti in esame: difatti, l’applicabilità dell’art. 540, secondo comma, cod. civ. è condizionata all’effettiva esistenza, al momento dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi (19).
Dunque, all’esito di questi due interventi, la Corte sembra orientata nel senso di vietare il riconoscimento dei diritti in oggetto al coniuge superstite separato senza addebito, eccettuato il caso, del tutto improbabile, in cui i coniugi, nonostante la separazione, abbiano continuato a convivere; bisogna sottolineare due aspetti: da un lato, emerge che la Suprema Corte, nel dissidio tra la ratio della norma in esame e l’equiparazione dei diritti successori tra coniuge separato e non separato, fa prevalere di gran lunga la prima, che, oltretutto, viene riportata per esteso in entrambe le sentenze; dall’altro lato, bisogna evidenziare che, quand’anche i coniugi separati stessero convivendo nella casa familiare al momento dell’apertura della successione, e quindi sussista, secondo la Corte, il presupposto oggettivo per il riconoscimento dei diritti di abitazione e di uso, tale residenza, in realtà, non deve essere ricondotta al disposto dell’art. 144 cod. civ., ma può, al più, essere intesa come mera coabitazione materiale, poiché la compagine familiare permane, comunque, in uno stato di crisi ricollegabile alla separazione dei coniugi (20), salvo che questi ultimi decidano di riconciliarsi ai sensi dell’art. 157 cod. civ.
Nel terzo e ultimo precedente di legittimità, pronunciato, stavolta, nella forma dell’ordinanza, la Corte, in sostanza, si pone in continuità con il principio di diritto adoperato dagli interventi precedenti (21); piuttosto, un elemento di novità risiede nelle caratteristiche della fattispecie concreta dalla quale si è originato il contenzioso: il coniuge superstite, infatti, a differenza di quanto si è visto per gli altri due pronunciati, in tal caso, in virtù di una previsione contenuta nell’accordo omologato di separazione consensuale, aveva continuato ad abitare nella precedente residenza familiare sino, ma anche successivamente, all’apertura della successione del coniuge proprietario deceduto, il quale, invece, aveva lasciato la casa d’abitazione (22). La novità, dunque, sta nel fatto che, mentre nei due casi precedenti i diritti di abitazione e di uso non sarebbero stati riconosciuti anche qualora si fosse optato per il terzo orientamento dottrinale, di tenore intermedio, di cui si è parlato (23); viceversa, nella fattispecie in esame, ove si fosse optato per quest’ultimo, tali diritti sarebbero stati riconosciuti, proprio perché il coniuge superstite, al momento dell’apertura della successione, abitava legittimamente nella precedente residenza familiare. Pertanto, la Corte, benché solo indirettamente, sconfessa tale interpretazione dottrinale, talvolta reputata, come visto, quella prevalente o preferibile (24).
5. Cass., 26 luglio 2023, n. 22566
Venendo alla pronuncia in commento, si è già precisato che la Suprema Corte non si è arrestata alla considerazione secondo cui i coniugi, nel caso di specie, al momento dell’apertura della successione, non erano ancora separati giudizialmente, elemento che, già di per sé, avrebbe consentito di cassare con rinvio la sentenza di appello (25); al contrario, la Corte, volutamente, si è scontrata col giudice del precedente grado di giudizio e, soprattutto, con le anteriori pronunce di legittimità, sul loro stesso terreno, enunciando un principio di diritto di tenore diametralmente opposto rispetto all’interpretazione giurisprudenziale sinora implementata e seguita. Difatti, affermando che «i diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, secondo comma, cod. civ., spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare», la Suprema Corte ribalta il preesistente rapporto tra regola ed eccezione: se prima tali diritti, al coniuge separato senza addebito, non dovevano mai essere riconosciuti, tranne che nell’improbabile caso in cui i coniugi avessero continuato a convivere nonostante la separazione; adesso, invece, i diritti in questione devono essere sempre riconosciuti al coniuge superstite non proprietario al quale non sia stata addebitata la separazione, tranne che nell’unico caso in cui entrambi i coniugi, prima dell’apertura della successione, abbiano lasciato la precedente casa familiare.
La Corte, oltre a precisare che la norma menzionata «non annovera fra i presupposti per l’attribuzione dei diritti la convivenza tra i coniugi», afferma, quale principale argomento a sostegno della posizione adottata, che «la lettera dell’art. 548 cod. civ. è chiara nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato»; pertanto, la pronuncia, all’interno del dissidio sopra menzionato, fa prevalere tale equiparazione di diritti successori, a scapito della ratio dell’art. 540, secondo comma, cod. civ., la quale, peraltro, non viene richiamata nel testo della sentenza.
È opportuno sottolineare il salto interpretativo compiuto anche da un altro punto di vista: la Corte decide di abbandonare la precedente interpretazione restrittiva, non per approdare alla condivisione di quell’orientamento dottrinale intermedio che riconosce tali diritti, in sostanza, solo quando il coniuge superstite stesse abitando, anche da solo, nella precedente casa familiare al momento dell’apertura della successione, ma, anzi, il Supremo Collegio giunge a far propria quell’interpretazione dottrinale, sopra riportata, che, più di tutte, si poneva in contrasto con la precedente posizione giurisprudenziale, la quale, quindi, subisce un vero e proprio revirement.
Quanto ai casi in cui l’unione matrimoniale abbia generato dei figli, si è già ricordato che, indipendentemente dal fatto che, dopo la separazione, l’autorità giudiziaria abbia assegnato il godimento della casa familiare, secondo l’art. 337-sexies cod. civ., all’uno o all’altro genitore, l’adozione dell’interpretazione in questione determina sempre il riconoscimento, in capo al coniuge superstite non proprietario, dei diritti di abitazione e di uso sulla residenza familiare, poiché all’interno di essa ha continuato ad abitare, dopo la separazione, almeno uno dei coniugi, insieme, per di più, alla prole.
Infine, quanto al coniuge superstite separato di fatto, la Suprema Corte si limita ad affermare, in merito al riconoscimento dei diritti di abitazione e di uso nei suoi confronti, che, in tal caso, a maggior ragione, occorre riferirsi a criteri analoghi rispetto a quelli da lei stessa enunciati.
6. Critica e considerazioni conclusive
La nuova posizione adottata dal Supremo Collegio, a mio avviso, non convince, poiché, ugualmente e specularmente rispetto al precedente orientamento di legittimità, omette di tentare di trovare un bilanciamento, quanto più ragionevole possibile, tra i più volte richiamati termini della questione: da un lato, l’equiparazione dei diritti di cui all’art. 548, primo comma, cod. civ. e, dall’altro lato, la ratio, e i presupposti, dell’art. 540, secondo comma, cod. civ.; difatti, a mio parere, tale bilanciamento tra questi indici normativi, data l’assenza di una disposizione che precisamente riconosca i diritti di abitazione e di uso al coniuge superstite separato senza addebito, è ciò che l’interprete deve ricercare, in modo da trovare una soluzione che si armonizzi con il sistema e, in particolare, con gli stessi elementi predetti.
I due orientamenti di legittimità che si sono susseguiti, invece, incrinano il sistema, poiché, pur riconoscendo che non sia facile pervenire, sul punto, ad una conclusione immune da censure, essi portano palesemente, in direzioni opposte, a conseguenze irragionevoli: il primo, meno recente, comporterebbe l’esclusione dei diritti in oggetto in capo a quel coniuge separato senza addebito che, dopo la separazione, abbia continuato ad abitare, senza l’altro coniuge, nella casa familiare, sulla base di un accordo o di un provvedimento giudiziale; il secondo, espresso dalla pronuncia in commento, porterebbe a riconoscere i diritti a favore, addirittura, di quel coniuge che, a fronte della separazione, abbia lasciato la residenza familiare, purché l’altro abbia continuato ad abitarvi.
Da questi ultimi due esempi, a mio avviso, emerge come entrambi gli orientamenti, e, per quello che qui interessa, soprattutto il secondo di essi, infrangano la ratio sottesa ai diritti di abitazione e di uso, che consiste, come già ricordato, nella tutela dell’interesse morale del coniuge superstite alla conservazione dei rapporti affettivi e di consuetudine con la casa familiare, poiché, nel primo caso, ove tale interesse morale sussiste, i diritti verrebbero negati, mentre, nel secondo esempio, ove non si riscontra la ratio in questione, tali diritti verrebbero comunque riconosciuti in capo al coniuge superstite.
Alla luce di quanto affermato, a mio parere, invece, coglie nel segno quell’orientamento dottrinale, intermedio, che opta per l’attribuzione dei diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite separato senza addebito solo qualora egli stesse abitando, al momento dell’apertura della successione, nella precedente casa familiare, insieme al coniuge defunto o da solo; difatti, tale interpretazione permette di conciliare e bilanciare, tra loro, i termini della questione: da un lato, riconosce i diritti al coniuge separato senza addebito equiparando la sua posizione giuridica a quella del coniuge non separato, ma, dall’altro lato, ciò accade solo se il coniuge superstite, al momento dell’apertura della successione, stesse abitando nella precedente casa coniugale, poiché solo in tale ipotesi sussiste quell’interesse morale alla conservazione dei rapporti affettivi e di consuetudine con la residenza familiare, il quale, invece, si stempera, e finisce col difettare, qualora, in seguito alla separazione, tale coniuge l’abbia lasciata.
Qualora l’unione coniugale abbia generato dei figli, si sono già evidenziate le conseguenze dell’adozione di tale interpretazione: il genitore superstite si vede attribuiti i diritti solo qualora, al momento dell’apertura della successione, stesse convivendo con la prole nella casa familiare in forza del provvedimento giudiziale di cui all’art. 337-sexies cod. civ.; pertanto, qualora, invece, fosse il coniuge defunto a convivere con i figli, ecco che l’altro genitore non si vede riconosciuti i diritti di abitazione e di uso in seguito al venir meno del coniuge, potendo egli ottenere, al più, il godimento della casa familiare (26), in virtù di quanto disposto dall’autorità giudiziaria, che, comunque, deve avere riguardo al prioritario interesse dei figli.
Per quello che riguarda il coniuge separato di fatto, debbono valere analoghe considerazioni, poiché, vero è che la situazione di crisi della compagine familiare non viene formalizzata, e che, pertanto, essa non produce, di regola, degli effetti giuridici (27), ma, ove il coniuge superstite non abiti nella residenza familiare al momento dell’apertura della successione, si stempera l’interesse morale, più volte citato, alla conservazione dei rapporti affettivi e di consuetudine con la casa familiare (28), come nel caso del coniuge separato legalmente.
D’altra parte, un caso sintomatico in cui i diritti di abitazione e di uso potrebbero non essere riconosciuti in capo al coniuge superstite, benché non legalmente separato, è quello in cui egli, prima della scomparsa dell’altro coniuge, abbia attuato la condotta di cui all’art. 146, primo comma, cod. civ., allontanandosi, senza giusta causa, dalla residenza familiare e dimostrando, in tal modo, un disprezzo o, comunque, un disinteresse verso quest’ultima che, a mio avviso, si pone in contraddizione con la ratio sottesa a tali diritti.
In penultima battuta, ci si può chiedere se il disposto dell’art. 6, primo comma, L. 27 luglio 1978, n. 392, il quale prevede che, in caso di morte del conduttore, gli succedano nel contratto di locazione il coniuge (29), gli eredi, i parenti e gli affini con lui abitualmente conviventi, possa incidere sui discorsi sinora svolti, magari prospettando un’estensione, in via analogica, del requisito dell’abituale convivenza anche alla fattispecie dell’attribuzione dei diritti di abitazione e di uso; tale soluzione mi sembra da escludere, poiché il legato ex lege di posizione contrattuale in questione, che, oltretutto, configura un caso di vocazione anomala (30), dà luogo ad una fattispecie del tutto non assimilabile a quella che abbiamo analizzato: da una parte, infatti, la successione nel contratto di locazione stipulato dal defunto è prevista anche a favore di soggetti, conviventi, diversi dal coniuge; dall’altra parte, profondamente diversa è la natura delle situazioni giuridiche coinvolte: da un lato, la norma in oggetto consente di succedere all’interno di un contratto che determina l’attribuzione di un mero diritto personale di godimento, mentre, dall’altro lato, i diritti di abitazione e di uso rappresentano dei diritti reali di godimento (31).
In ultimo luogo, tornando alla pronuncia in commento, si sottolinea che, a fronte del dissidio delineatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità e, in particolare, della Seconda Sezione della Suprema Corte (32), e abbandonata la speranza di un intervento legislativo chiarificatore che, sinora, sul punto, non c’è mai stato, ecco che, dunque, risulta fortemente auspicabile l’intervento delle Sezioni Unite, di modo che possano porre fine alla querelle, optando per l’uno o per l’altro orientamento di legittimità, oppure, magari, scegliendo la terza posizione ricordata, fino a questo momento prospettata solo a livello dottrinale, ma che possiede, comunque, la possibilità di affermarsi in seno alla giurisprudenza della Suprema Corte, dato che, com’è noto, le Sezioni Unite possono decidere di adottare anche un orientamento diverso da quelli sposati dalle pronunce che hanno determinato il conflitto interpretativo.
1 In questi termini, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2022, XI ed., p. 168.
2 In tal senso, si veda G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2023, V ed., p. 490, dove, alla nota 1007, si aggiunge altresì che sussiste una tesi, allo stato del tutto minoritaria, secondo cui tali diritti costituirebbero un ampliamento della quota ereditaria riservata al coniuge, con la conseguenza che il loro acquisto avverrebbe a titolo universale a non a titolo particolare.
3 In questo senso, v.: G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 169; G. Capozzi,
Successioni e donazioni, cit., p. 491.
4 In questi termini, si veda G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 491-492.
Quanto alle modalità di calcolo di tali diritti nel contesto della successione legittima, sul presupposto che essi siano riconosciuti al coniuge superstite anche in tale ambito, si veda G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 684-688.
5 Così, G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 489; per la giurisprudenza, si veda Corte Cost., 26 maggio 1989, n. 310, in Giust. civ., 1989, p. 1782.
Sul punto, v. anche: L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Tratt. dir. civ. comm., già dir. da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1999, VI ed., p. 171; C. Coppola, I diritti d’abitazione e d’uso spettanti ex lege, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, pp. 101-105; L. Agostara, Successione mortis causa e riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione sulla casa familiare, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, num. 3-bis, 2015, p. 513; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 168.
6 Per la trattazione del problema riguardante il caso della casa familiare in comproprietà del coniuge defunto con un terzo, si veda G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 494-496.
7 In questi termini, v. G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 492-493.
8 Per tale ricostruzione, si veda C. Coppola, I diritti d’abitazione e d’uso spettanti ex lege, cit., pp. 132-135.
9 In tal senso, v.: M. G. Falzone Calvisi, Il diritto di abitazione del coniuge superstite, Napoli, 1993, p. 127 ss.; Giu. Azzariti – A. Iannaccone, Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi, in Giur. sist. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1997, III ed., p. 99.
10 In questi termini, si veda L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., p. 176; inoltre, cfr. A. Mascheroni, La successione del coniuge dopo la riforma del diritto di famiglia, in Riv. not., 1985, p. 418.
11 In questi termini, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 169.
12 In questi termini, v. C. Coppola, I diritti d’abitazione e d’uso spettanti ex lege, cit., p. 134;
13 Così, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 169.
14 Si veda G. F. Basini, I diritti successorii del coniuge separato, cit., pp. 191-192, dove, giustamente, si mette in evidenza che il coniuge non proprietario, e non convivente con i figli, alla morte dell’altro genitore, può vedersi attribuito il godimento della casa familiare, insieme ai figli che già ci vivono, non in forza dei diritti di abitazione e di uso di cui all’art. 540, secondo comma, cod. civ., ma in virtù del provvedimento dell’autorità giudiziaria, ove quest’ultima reputi che tale soluzione sia confacente rispetto all’interesse dei figli medesimi.
In generale, non è di poco rilievo la distinzione tra i diritti di cui all’art. 540, secondo comma, cod. civ. e il diritto di godimento riconosciuto al genitore, convivente con i figli, di cui all’art. 337-sexies cod. civ.: difatti, la portata dei primi è di gran lunga maggiore di quella del secondo, già solo per il fatto che, mentre per i diritti di abitazione e di uso non sono testualmente previste delle fattispecie di estinzione, viceversa, è espressamente previsto che l’assegnazione della casa familiare venga meno qualora il genitore assegnatario non vi abiti, cessi di abitarvi stabilmente, oppure conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Si veda anche L. Agostara, Successione mortis causa e riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione sulla casa familiare, cit., p. 514
15 Tale conclusione non è di poco momento, poiché, così facendo, a partire dall’apertura della successione il genitore superstite beneficerà, non più del diritto al godimento della casa familiare di cui all’art. 337-sexies cod. civ., ma dei diritti di abitazione e di uso in esame, che, come riportato nella nota precedente, hanno un’estensione ben più ampia di quest’ultimo.
16 In tal senso, si veda: App. Venezia, 14 giugno 1984, in Giur. it., 1986, I, 2, c. 28, con nota critica di L. Mezzanotte, Vanificazione del diritto di abitazione spettante al coniuge separato di fatto; Trib. Foggia, 30 gennaio 1993, in Giust. civ., 1993, I, p. 1652. In particolare, la prima pronuncia ha ritenuto non lesiva della legittima del coniuge separato di fatto la disposizione testamentaria con la quale il de cuius aveva attribuito al convivente more uxorio l’appartamento in cui avevano coabitato, e la seconda pronuncia ha escluso il riconoscimento dei diritti di abitazione e di uso al coniuge superstite separato di fatto che aveva fissato altrove la propria residenza.
anche: C. Coppola, I diritti d’abitazione e d’uso spettanti ex lege, cit., p. 133, testo e nota 112; L. Agostara, Successione mortis causa e riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione sulla casa familiare, cit., p. 512, testo e nota 16; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 493-494, testo e nota 1014.
17 Si veda: Cass., 12 giugno 2014, n. 13407, in Dir. e giust., 2014, n. 1, p. 101, con nota di D. Achille, Diritto d’abitazione della casa familiare: la Cassazione dice no al coniuge separato, anche senza addebito; Cass., 22 ottobre 2014, n. 22456, in Riv. not., 2015, n. 1, p. 204 ss., con nota di C. Cicero – S. Deplano, Profili evolutivi dell’art. 540, secondo comma, cod. civ.: effettività della destinazione «a residenza familiare» e rilevanza degli interessi extrapatrimoniali del coniuge superstite; Cass., ord., 5 giugno 2019, n. 15277, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 6, p. 1338 ss., con nota di M. Farneti, Non spetta dunque mai al coniuge superstite separato il diritto di abitare nella casa adibita a residenza familiare?.
18 In tal senso, si veda M. Farneti, Non spetta dunque mai al coniuge superstite separato il diritto di abitare nella casa adibita a residenza familiare?, cit., p. 1342.
19 In questi termini, v.: Cass., 12 giugno 2014, n. 13407, cit.; Cass., 22 ottobre 2014, n. 22456, cit.
20 Cfr. G. F. Basini, I diritti successorii del coniuge separato, cit., pp. 186-187, testo e nota 17, dove si dice che
«non sempre la separazione esclude l’esistenza di una casa di comune residenza, almeno nel senso di casa in cui i coniugi coabitano, al momento dell’apertura della successione», e si aggiunge che, forse, per integrare il disposto dell’art. 540, secondo comma, cod. civ., potrebbe essere sufficiente anche la sola coabitazione, la cui nozione non coincide con quella di convivenza; d’altra parte, «che i coniugi continuino a coabitare, pur non potendosi più dire conviventi, anche dopo la separazione personale, o, addirittura, dopo lo scioglimento del matrimonio, è evento raro, ma non impossibile».
21 In questi termini, v. Cass., ord., 5 giugno 2019, n. 15277, cit., pp. 1344-1345.
22 Si veda Cass., ord., 5 giugno 2019, n. 15277, cit., p. 1345.
23 Secondo il quale il coniuge superstite è titolare dei diritti di abitazione e di uso, nonostante la separazione, ogni qual volta abbia continuato a vivere nella casa già adibita a residenza familiare, in forza di accordo con l’altro coniuge o per disposizione del giudice.
D’altra parte, invece, in tutte e tre le fattispecie concrete sottoposte al vaglio della giurisprudenza, ove si fosse optato per il secondo orientamento dottrinale, il più largheggiante, ecco che avrebbe sempre trovato luogo il riconoscimento dei diritti in questione, a patto che almeno uno dei due coniugi, quello superstite o quello premorto, fosse rimasto a vivere nella precedente casa familiare fino al momento dell’apertura della successione, venendo meno, tale attribuzione, solo nella residua ipotesi in cui l’originaria residenza comune fosse stata abbandonata da entrambi i coniugi.
24 Cfr. M. Farneti, Non spetta dunque mai al coniuge superstite separato il diritto di abitare nella casa adibita a residenza familiare?, cit., p. 1343.
25 La quale ha applicato al caso di specie, dove, per l’appunto, i due coniugi non erano ancora giudizialmente separati, il principio di diritto che la giurisprudenza di legittimità ha elaborato con riferimento, invece, alla fattispecie dei coniugi già separati al momento dell’apertura della successione di uno di questi.
26 È già stata sottolineata la differenza tra la più ampia estensione dei diritti di abitazione e di uso e la portata, più ridotta, del diritto di godere della casa familiare di cui all’art. 337-sexies cod. civ.
27 In tal senso, si veda G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2023, XI ed., p. 277 ss.
28 Si ricorda nuovamente che la ratio dei diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite è stata individuata, in questi termini, dalla Consulta, con la sentenza Corte Cost., 26 maggio 1989, n. 310.
29 La Consulta, con la sentenza Corte Cost., 7 aprile 1988, n. 404, ha dichiarato incostituzionale questa disposizione nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. D’altra parte, al contrario, la Corte, con la sentenza, già menzionata, Corte Cost., 26 maggio 1989, n. 310, ha escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 540, secondo comma, cod. civ. nella parte in cui non riconosce i diritti di abitazione e di uso anche al convivente more uxorio, asserendo che tali diritti spettano al coniuge in quanto legittimario. Si veda L. Agostara, Successione mortis causa e riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione sulla casa familiare, cit., p. 513.
30 In questi termini, v. G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 701-702; vengono definite anomale quelle vocazioni che si discostano dai principi propri delle successioni legittime e, nella fattispecie in esame, l’anomalia risiede nell’attribuzione della facoltà di succedere nel contratto di locazione esclusivamente a determinati soggetti. che convivevano abitualmente con il conduttore defunto.
31 Trattasi di una distinzione non troppo lontana rispetto a quella che abbiamo tracciato tra questi stessi diritti e l’attribuzione del godimento della casa familiare di cui all’art. 337-sexies cod. civ.
32 Difatti, essendo competente nella materia delle successioni, tutte e quattro le pronunce di legittimità analizzate sono state da essa emanate.
Michele Piccolo
LA NATURA GIURIDICA DELLA DISPENSA DA IMPUTAZIONE EX SE, ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, SEZ.I 6 FEBBRAIO 2024, N. 3352
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Il caso sottoposto alla Corte di cassazione; 2. L’imputazione ex se; 3. La dispensa da imputazione ex se e la sua natura giuridica.
- Il caso sottoposto alla Corte di cassazione.
A mezzo della sentenza del 6 febbraio 2024, n. 3352, la Corte di cassazione ha avuto modo di pronunziarsi sulla natura giuridica della dispensa da imputazione ex se, da sempre oggetto di un vivo e acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
La controversia, sulla quale sono stati chiamati a pronunziarsi i giudici di legittimità, trae origine dallo scioglimento di una comunione ereditaria. Nel caso di specie, infatti – in virtù della divisione giudiziale della comunione ereditaria relativa all’eredità di Tizio e della moglie Tizia, pronunziata dal Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 1103 del 2012, pubblicata in data 30 gennaio 2012, previa riduzione delle donazioni e al netto dell’operatività dell’istituto della collazione, di cui all’art. 737 cod. civ. –, venivano assegnati ai figli Caio, Mevio e Lavinia distinte unità immobiliari, facenti parte di un medesimo edificio, secondo il progetto divisionale predisposto dal consulente tecnico d'ufficio, ponendo a carico dei due fratelli conguagli a favore della sorella Lavinia. Peraltro, lo scioglimento definitivo della suddetta comunione ereditaria coinvolgeva unicamente i tre figli, in quanto, precedentemente, gli altri coeredi avevano ceduto a costoro le proprie quote ereditarie, così uscendo dalla comunione medesima.
Proponeva appello, dunque, Mevio, lamentando che la quota a lui attribuita, in sede divisoria, fosse inferiore a quanto spettantegli, a causa della mancata attribuzione in suo favore di una porzione della quota disponibile, nonché per errori di calcolo compiuti dal consulente d’ufficio. In particolare, l’attore riteneva che necessariamente allo stesso dovesse competere anche una porzione della così detta quota disponibile, in quanto beneficiario di una donazione, compiuta nel 1965 dai propri genitori in suo favore, in conto disponibile e con espressa dispensa da imputazione.
La Corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 80 del 2018, pubblicata il 10 gennaio 2018, accoglieva la domanda attorea limitatamente alla quantificazione del conguaglio, osservando che, in tal senso, errori di calcolo erano stati compiuti nella relativa quantificazione; allo stesso tempo, per il resto, veniva rigettato l’appello, in quanto si osservava che, nonostante la donazione in favore di Mevio fosse stata realizzata in conto disponibile e con espressa dispensa da imputazione ex se, successivamente, entrambi i genitori, Tizio e Tizia, avevano attribuito, a mezzo di testamento pubblico, la quota disponibile dei relativi patrimoni alla figlia Lavinia.
Pertanto, secondo lo scrutinio della Corte di appello, così facendo, i due coniugi, con una manifestazione di volontà chiara e univoca, avevano, di fatto, non revocato in modo espresso quanto in precedenza previsto con la donazione, ma, implicitamente, annullato le precedenti disposizioni incompatibili, ai sensi dell’art. 682 cod. civ. In altri termini, si è ritenuto che, nel caso di specie, Tizio e Tizia avessero revocato, a mezzo dei propri testamenti pubblici, in parte, quanto precedentemente disposto all’interno della donazione, in quanto incompatibile.
Alla luce di tale conclusione, Mevio proponeva ricorso innanzi alla Suprema Corte, affidando le proprie ragioni a due motivi: soffermando l’attenzione sul primo di essi, la parte attrice riteneva che la Corte di appello aveva errato nel qualificare la sopra citata donazione come effettuata in conto di legittima, in quanto tale donazione era stata compiuta in conto disponibile e con espressa dispensa da imputazione; inoltre, veniva denunciata una scorretta applicazione dell’art. 682 cod. civ., poiché, essendo la donazione un contratto tra vivi, soggetto a revoca nei soli tassativi casi di cui agli artt. 800 ss. cod. civ., si riteneva inapplicabile l’art. 682 cod. civ., dettato in materia testamentaria.
La Corte di Cassazione, ritenendo fondato il suddetto motivo, ha osservato che in un unico passaggio della sentenza la Corte di appello sia incorsa in un mero errore materiale, riferendosi ad una donazione disposta in conto di legittima – e non in conto disponibile –, ma, comunque, in ogni caso, la suddetta Corte ha sviluppato l’intero ragionamento giuridico riferendosi ad una donazione in conto disponibile; in altri termini, i giudici di legittimità hanno ben messo in luce un errore puramente materiale della sentenza impugnata, senza, però, che esso abbia influito sull’esito del giudizio.
In secondo luogo, soffermandosi sulla natura giuridica della dispensa da imputazione, ai sensi dell’art. 564, secondo comma, cod. civ. – e definendo questa, quindi, quale negozio autonomo, seppur correlato alla donazione medesima –, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dal signor Mevio, censurando l’applicazione dell’art. 682 cod. civ.; in particolare, infatti, si è osservato che se per la dispensa da imputazione, come affermato dalla prevalente e dominante dottrina, è necessaria un’espressa e chiara volontà, in tale direzione, lo stesso deve dirsi ai fini di una sua revoca, «in quanto atto successivo e di contenuto contrario a quello per il quale è previsto il requisito della forma espressa […], restando esclusa l'utilizzabilità di elementi extra-negoziali e la desumibilità di una volontà in tal senso per implicito» (così, Cass. 6 febbraio 2024, n. 3352).
Proseguendo, la Corte di cassazione, pertanto, ha osservato che «la sentenza impugnata, dopo avere verificato e testualmente dichiarato che i testamenti non revocavano in modo espresso quanto in precedenza previsto con l'atto di donazione, avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della mancanza di revoca della dispensa dell'imputazione e procedere alla decisione tenendo conto del fatto che la donazione a favore del figlio era stata eseguita in conto disponibile e con dispensa dall'imputazione» (cfr., Cass. 6 febbraio 2024, n. 3352).
In conclusione, ritenendo che l’attribuzione per testamento della quota disponibile ad un erede non sia incompatibile, né letteralmente, né logicamente, con la precedente attribuzione della donazione in conto disponibile e con dispensa dall'imputazione a favore di altro soggetto, i giudici di legittimità hanno accolto il primo motivo di ricorso, dichiarato assorbito il secondo, cassando la sentenza impugnata e, pertanto, rinviando la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.
- L’imputazione ex se.
L’art. 564, secondo comma, cod. civ. dispone che: «[…] il legittimario, che domanda la riduzione di donazioni o di disposizioni testamentarie, deve imputare alla sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti, salvo che ne sia stato espressamente dispensato».
In particolare, la suddetta disposizione prevede, quale condizione necessaria ai fini dell’esperimento in giudizio dell’azione di riduzione, in aggiunta all’accettazione con beneficio d’inventario, l’imputazione delle donazioni e dei legati, disposti dal de cuius, a favore del beneficiario-legittimario, alla porzione legittima di costui [1].
La ratio della norma viene ricondotta alla presunzione che, salvo espressa dispensa, possibilità riconosciuta dalla chiusa dell’art. 564, secondo comma, cod. civ., le donazioni, i legati e, più in generale, ogni altra attribuzione, compiuta dal de cuius, a favore di chi agisce in riduzione [2], debbano considerarsi mere anticipazioni sulla quota di legittima [3]; pertanto, ai fini di determinare quanto il legittimario abbia effettivamente conseguito, a titolo di legittima, occorre considerare non solo quanto abbia ottenuto a titolo di eredità, ma, anche, quanto abbia acquistato dal de cuius a titolo liberale. In altri termini, tali attribuzioni debbono essere conteggiate, dopo l’apertura della successione, dal legittimario che intenda verificare di non essere stato leso [4].
L’imputazione ex se, quindi, è un calcolo meramente contabile-fittizio – da compiere unitamente alle operazioni di cui all’art. 556 cod. civ. (la, così detta, riunione fittizia) –, volto a determinare quanto il legittimario abbia realmente conseguito dal de cuius [5].
Nonostante l’art. 564, secondo comma, cod. civ. faccia esclusivo riferimento alle donazioni e ai legati disposti dall’ereditando in favore del riservatario, non vi è dubbio che la disposizione debba essere interpretata estensivamente e, pertanto, si deve concludere che oggetto dell’imputazione debbano essere anche i beni che esso abbia conseguito a titolo di eredità [6]. Quindi, a titolo di esempio, se il testatore, vedovo e padre di due figli, nomina il primo erede dei 4/5 del suo patrimonio e il secondo erede di 1/5, quest’ultimo, qualora desideri agire in giudizio, esperendo l’azione di riduzione, dovrà procedere all’imputazione non solo di eventuali donazioni e legati disposti in suo favore, ma anche di quella parte di asse ereditario (1/5) per la quale è stato nominato erede [7].
L’oggetto dell’imputazione ex se viene determinato dall’art. 564, ultimo comma, cod. civ., il quale dispone che: «Ogni cosa che […] è esente da collazione, è pure esente da imputazione». In altri termini, la determinazione di ciò che debba essere imputato alla quota di legittima si rinviene, indirettamente, nella disciplina dettata in materia di collazione.
Alla luce di tale rinvio, pertanto, essendo oggetto di collazione, si ritengono oggetto di imputazione le donazioni dirette, indirette – in quanto, anche se l’art. 564 cod. civ. non prevede, a differenza dell’art. 737 cod. civ., dettato in tema di collazione, un riferimento espresso anche alle donazioni indirette, è in virtù del generale sopra citato rinvio che può ritenersi coincidente l’area della collazione con l’area dell’imputazione –, donazioni di modico valore, remuneratorie [8], con le esclusioni di cui agli artt. 741 ss. cod. civ. [9].
Nonostante detto rinvio, in ogni caso, differenti sono tra loro gli istituti dell’imputazione ex se e della collazione: il primo, come detto, consiste in una condizione indefettibile ai fini dell’azione di riduzione e si concreta in un calcolo, di natura contabile, volto a determinare quanto realmente abbia conseguito il legittimario; l’obbligazione collatizia, invece, ha la funzione di evitare disparità di trattamento fra i coeredi [10]. In altri termini, secondo la prevalente opinione [11], qualora un soggetto compia una donazione a favore dei propri figli (o discendenti di costoro) o del proprio coniuge (o unito civilmente) sta anticipando loro una porzione della propria eredità, di guisa che, a seguito dell’apertura della successione, quanto donato debba considerarsi quale acconto della quota ereditaria. In tale ottica, pertanto, la collazione persegue il fine di rimuovere la disparità di trattamento che le donazioni potrebbero venire a determinare [12].
Differente, inoltre, al di là della ratio e del fondamento, giuridico e pratico, degli istituti, è, in parte, anche la natura giuridica degli stessi, in quanto l’imputazione ex se è definibile quale onere, al fine di esercitare l’azione di riduzione, mentre, la collazione, come chiaramente disposto dalla lettera di cui all’art. 737 cod. civ., è un vero e proprio obbligo, gravante sui coeredi donatari, indicati da tale norma di legge.
- La dispensa da imputazione ex se e la sua natura giuridica.
L’ultima parte dell’art. 564, secondo comma, cod. civ., riconosce la possibilità di dispensare il legittimario dall’imputazione ex se.
In particolare, quindi, il donante, nella realizzazione dell’intento liberale, così come il testatore, in occasione della redazione del testamento, ha la facoltà di escludere che l’oggetto delle attribuzioni – disposte a mezzo di donazioni e/o disposizioni testamentarie a titolo universale o particolare – sia imputato alla quota di legittima [13].
La funzione tipica della suddetta dispensa, pertanto, è quella di evitare che il riservatario debba imputare alla propria quota di legittima l’oggetto della liberalità compiuta in suo favore, di modo che quella attribuzione debba considerarsi gravante sulla così detta quota disponibile, ossia come realizzata in eccesso rispetto a quanto il legittimario ha diritto di conseguire [14].
Giova rammentare che, ai sensi dell’art. 564, quarto comma, cod. civ., la dispensa non può produrre effetto a danno delle donazioni anteriori, in quanto, se il legittimario potesse agire giudizio, a mezzo dell’azione di riduzione, contro le donazioni precedenti alla propria, si avrebbe, in sostanza, l'effetto di revocare, in tutto o in parte, le precedenti donazioni, pur con decorrenza dall'apertura della successione del donante [15].
Affinché tale dispensa possa dispiegare i propri effetti, a norma dell’art. 564, secondo comma, cod. civ., è necessario che ciò sia espressamente previsto; in altri termini, è necessario che tale intento venga manifestato espressamente, non potendo, tale volontà, essere desunta implicitamente, ossia da fatti concludenti. Al tempo stesso, non occorrono formule sacramentali per la redazione di tale dispensa, in quanto è esclusivamente essenziale che la volontà risulti ed emerga chiaramente dall’atto. Pertanto, è bene osservare che è possibile che la suddetta volontà possa evincersi anche dal contesto in cui trova spazio la disposizione, purché, come detto, sia ravvisabile una chiara ed esplicita volontà in tale direzione [16]. Inoltre, può affermarsi che la dispensa dall’imputazione ex se non possa desumersi ed evincersi dall’eventuale dispensa da collazione, in quanto, come osservato in precedenza, i due istituti poggiano su logiche e fondamenti differenti [17].
Si discute quale sia la natura giuridica della dispensa da imputazione e, rispetto a tale questione, due sono le principali posizioni dottrinali e giurisprudenziali: una parte della dottrina [18], supportata anche da alcune pronunce della Corte di cassazione [19], ritiene che sia una clausola accessoria della donazione, in quanto il donante vorrebbe, con un unico negozio – donazione con dispensa –, attribuire al donatario un diritto, in guisa che a costui rimanga intoccabile definitivamente; invece, secondo la prevalente dottrina [20], seguita da alcune pronunce giurisprudenziali [21], ivi compresa la sentenza oggetto del presente commento, la dispensa da imputazione, così come la dispensa da collazione, è un negozio autonomo, seppur collegato alla donazione.
In particolare, come ben messo in luce dalla presente pronunzia della Corte di cassazione, la dispensa da imputazione ex se, indipendentemente da dove sia contenuta – e quindi, sia nell’ipotesi in cui sia inserita nella donazione, oppure in un atto tra vivi successivo ad essa, sia nel caso in cui sia affidata ad una disposizione testamentaria –, è un atto unilaterale ed unipersonale, definibile quale atto di ultima volontà, in quanto destinato a realizzare i propri effetti solo dopo la morte della persona, e mortis causa, in quanto la morte caratterizza la dispensa sotto il profilo oggettivo-funzionale [22].
Pertanto, vista la sua natura giuridica, la dispensa da imputazione, indipendentemente dalla circostanza che essa sia inserita in un contratto di donazione, in un atto autonomo o in un testamento, è sempre revocabile dal suo autore. Proseguendo in tale direzione, quindi, si può concludere che il defunto che abbia dispensato dall’imputazione il proprio legittimario, contestualmente all’atto di donazione, possa successivamente revocare tale dispensa a mezzo del proprio testamento – senza che si possa sostenere l’inefficacia di questa dispensa, ritenendo che essa, in quanto inserita nel contratto, abbia natura bilaterale e, quindi, revocabile solo di concerto con il donatario [23].
La presente pronunzia, superando precedenti giurisprudenziali difformi, mediante cui, in più occasioni, è stata sostenuta la tesi circa la natura bilaterale della dispensa da imputazione, si colloca in linea con l’opinione prevalentemente sostenuta in dottrina, anche e soprattutto rispetto alla dispensa da collazione.
In conclusione, il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte è il seguente: «La disposizione del donante secondo la quale la donazione è eseguita in conto di disponibile con dispensa dall'imputazione, seppure contenuta nella donazione, costituisce negozio di ultima volontà, come tale revocabile dal suo autore. La successiva revoca della dispensa dall'imputazione, così come la dispensa dall'imputazione ex art. 564 co. 2 cod. civ., deve essere espressa e l'attribuzione per testamento della disponibile ad altro erede non comporta annullamento della precedente dispensa dall' imputazione della donazione ai sensi dell'art. 682 cod. civ. nel caso in cui le disposizioni siano di fatto compatibili in quanto il valore della donazione con dispensa dell'imputazione sia inferiore a quello della disponibile»
[1] V., in particolare, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2022, XI ed., p. 207 ss.
[2] Cfr., L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu - F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 2000, p. 255 ss.
[3] In tal senso, v. V. Barba, La successione dei legittimari, Napoli, 2020, p. 316 ss.
[4] Così, G. Capozzi, in Successioni e Donazioni, a cura di A. Ferrucci - C. Ferrentino, Milano, 2023, V. ed., p. 590 ss.
[5] Cfr., G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 208.
[6] Si veda, V. Barba, La successione dei legittimari, cit., p. 316.
[7] In tal senso, v. G. Capozzi, in Successioni e Donazioni, cit., p. 593.
[8] A. Burdese, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. it., dir. da G. Vassalli, Torino, 1980 p. 433 ss.; P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, Art. 713-768, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 2000, p. 499 ss.
[9] Pertanto, ai sensi dell’art. 741 cod. civ., deve affermarsi che non è soggetto a imputazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di una attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti. Seguendo il disposto di cui all’art. 742 cod. civ., non sono soggette a imputazione nemmeno le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, né quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze. Le spese per il corredo nuziale e quelle per l’istruzione artistica o professionale sono soggette a imputazione solo per quanto eccedono notevolmente la misura ordinaria, tenuto conto delle condizioni economiche del defunto. Non sono soggette a imputazione le liberalità previste dal secondo comma dell’articolo 770. Ex art. 243 cod. civ., non è dovuta imputazione di ciò che si è conseguito per effetto di società contratta senza frode tra il defunto e alcuno dei suoi eredi, se le condizioni sono state regolate con atto di data certa. Infine, ai sensi dell’art. 744 cod. civ., non è soggetta a imputazione la cosa perita per causa non imputabile al donatario (rectius, beneficiario).
[10] Rispetto al fondamento della collazione, diverse sono state le tesi sostenute dalla dottrina e dalla giurisprudenza: taluni (tra questi, v., G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, p. 730) hanno ricondotto l’operatività dell’istituto alla presunta volontà del de cuius; altri (tra questi, v. L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, p. 183 ss.) hanno ritenuto che l’istituto fosse finalizzato ad assicurare assoluta uguaglianza tra gli eredi; secondo altra dottrina (F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. III, parte seconda, Milano, 1952, p. 419 ss.) si è ritenuto che ciascun membro della famiglia avrebbe, durante la vita del de cuius, un’eguale aspettativa sul patrimonio di costui; una consolidata dottrina (v., in particolare, A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1961, p. 513 ss.) ritrova il fondamento e la ratio della collazione nel superiore interesse della famiglia; infine, secondo la prevalente opinione (in luogo di tanti, v. A. Burdese, La divisione ereditaria, cit., p. 272), le donazioni compiute in vita sono anticipazioni di eredità e, pertanto, la collazione persegue il fine di evitare disparità di trattamento.
[11] In tal senso, in dottrina, si vedano A. Burdese, La divisione ereditaria, cit., p. 272; P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, Art. 713-768, cit., p. 368; M. Cannizzo, Divisione, in Le successioni, a cura di P. Cendon, Torino, 1999, p. 162 ss. In giurisprudenza, v. Cass., 27 gennaio 1995, n. 989, in Riv. notariato, 1996, p. 876.
[12] Relativamente alle imputazioni delle attribuzioni realizzate a mezzo del patto di famiglia, di cui agli artt. 768-bis, ss. cod. civ., si vedano F. Magliulo, L’apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione, in Quaderni della fondazione Italiana per il notariato. Il Sole 24 Ore. Milano-Roma, 2006, p. 291 ss.; G. Petrelli, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not., 2006, p. 451 ss.; G. Bonilini, Il patto di famiglia, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, vol. III, La successione legittima, a cura di G. Bonilini, Milano, 2009, p. 634 ss.
[13] Cfr., A. Tullio, L’azione di riduzione. L’imputazione ex se, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 557 ss.
[14] Così, V. Barba, La successione dei legittimari, cit., p. 318.
[15] Così, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 209.
[16] A titolo di esempio, L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, cit., p. 259 ravvisa una valida manifestazione di volontà di dispensare nell’ipotesi in cui il testatore, dopo aver onorato il legittimario a mezzo di un legato, lo istituisca erede nella quota di legittima.
[17] In tal senso, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 209.
[18] G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., p. 764; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., p. 423.
[19] Si vedano, in particolare, Cass., 1 ottobre 2003, n. 14590, in Riv. not., 2004, p. 1037 ss.; Cass. 7 maggio 1984, n. 2752, in Giust. civ. Mass., 1984, fasc. 5.
[20] L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte. Parte generale, Napoli, 1977, p. 709; A. Burdese, La divisione ereditaria, cit., p. 311; P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, Art. 713-768, cit., p. 516 ss.
[21] V., Cass., 29 ottobre 2015, n. 22097, in Giust. civ. Mass., 2015.
[22] In questo medesimo senso si è espresso, relativamente alla dispensa da collazione, V. Barba, La dispensa da collazione (Studio n. 78/2023-C), in Studi e materiali, Rivista semestrale del CNN, 2023, p. 17 ss.
[23] Cfr., V. Barba, La successione dei legittimari, cit., p. 321.
Francesco M. Moglia
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Cassazione civile sez. un. - 05/03/2025, n. 5841
Il perfezionamento del contratto di mutuo, con la conseguente nascita dell'obbligo di restituzione a carico del mutuatario, si verifica nel momento in cui la somma mutuata, ancorché non consegnata materialmente, sia posta nella disponibilità giuridica del mutuatario medesimo, attraverso l'accredito su conto corrente, non rilevando in contrario che le somme stesse siano immediatamente destinate a ripianare pregresse esposizioni debitorie nei confronti della banca mutuante, costituendo tale destinazione frutto di atti dispositivi comunque distinti ed estranei alla fattispecie contrattuale.
Anche ove si verifichi tale destinazione, il contratto di mutuo (c.d. mutuo solutorio), in presenza dei requisiti previsti dall'art. 474 cod. proc. civ., costituisce valido titolo esecutivo.
Le SS.UU della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5841 del 5 marzo 2025, si occupano del cosiddetto mutuo solutorio, contratto con cui il mutuatario riceve un accredito della somma di denaro per ripianare la pregressa esposizione debitoria del mutuatario verso il mutuante.
In particolare, viene fornita la risposta a tre interrogativi.
Il primo attiene alla validità o meno del mutuo solutorio.
Il secondo, in caso di risposta positiva al primo quesito, attiene alla possibilità che il contratto di mutuo costituisca titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.
Il terzo, infine, è volto a chiarire se l'eventuale risposta positiva ai primi due quesiti possa valere anche nel caso in cui il ripianamento delle passività mediante le somme erogate in mutuo, con operazione di giroconto, sia operato dalla banca autonomamente e immediatamente.
- Il caso
Il caso de quo si sostanzia in una lunga vicenda giudiziaria, che prende le mosse dall’opposizione al Decreto ingiuntivo, realizzata dai ricorrenti principali, ai quali il Tribunale di Ferrara aveva ingiunto il pagamento di una somma di denaro nei confronti di un istituto di credito, come saldo negativo di un conto corrente garantito da ipoteca.
Preliminarmente, va considerato che i ricorrenti avevano concluso con l’istituto di credito diversi contratti di mutuo e il ricorso monitorio si era instaurato riguardo all’ultimo, quale mutuo ipotecario con contestuale apertura di conto corrente.
In particolare, i ricorrenti ritennero illegittimo il comportamento della Banca e lamentarono la circostanza che questa avesse solo apparentemente erogato le somme concesse a mutuo, posto che le stesse non erano mai uscite dalle casse dell'asserita mutuante, ma erano state utilizzate per estinguere i mutui e le aperture di credito precedenti.
Il Tribunale di Ferrara con sentenza n. 195 del 2016 respinse gli argomenti volti a contestare la validità del contratto di mutuo, pur riconoscendo che l’importo dovuto dai ricorrenti alla banca fosse inferiore e revocando il decreto ingiuntivo.
I ricorrenti proposero, dunque, appello presso la Corte d’Appello di Bologna, la quale con sentenza n. 905/2020, resa pubblica il 4 marzo 2020, confermò la sentenza di primo grado impugnata. In particolare, i giudici di merito svolsero delle riflessioni che – come si vedrà infra – si pongono in linea con le conclusioni a cui è addivenuta la Corte di Cassazione nella sentenza oggetto della presente analisi.
In particolare, si evidenziò che l’accredito delle somme sul conto corrente dei ricorrenti equivale a “consegna” ex art. 1813 c.c., senza che a nulla rilevi l’utilizzo successivo delle stesse da parte della banca, per estinguere un mutuo precedente. L’eventuale impiego successivo delle somme non priva il mutuo della sua causa in concreto. D’altra parte, si rilevò che il mutuo solutorio è fattispecie distinta dal mutuo di scopo, essendo quest’ultima ipotesi caratterizzata da una specifica destinazione del finanziamento.
Avverso tale sentenza, i ricorrenti proposero ricorso per Cassazione sulla base di nove motivi. Pur avendo il Pubblico Ministero concluso per il rigetto del ricorso, durante la pubblica udienza del 4 luglio 2024, la Seconda Sezione civile della Corte, con ordinanza n. 18903 del 10 luglio 2024, decise di rimandare gli atti alla Prima Presidente per l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, al fine di affrontare le questioni sollevate dal primo e secondo motivo di ricorso riguardanti la qualificazione del "mutuo solutorio".
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, condividendo le posizioni dei giudici di merito, hanno ritenuto valido il cosiddetto mutuo solutorio, evidenziando che l’accredito delle somme su un conto corrente è considerato sufficiente per soddisfare il requisito giuridico della datio rei propria del mutuo.
Conseguentemente, il contratto di mutuo può costituire titolo esecutivo, ove ricorrano i presupposti ex art. 474 c.p.c.
Infine, l’eventuale movimentazione in uscita di somme dal conto corrente bancario, operata in assenza di disposizioni in tal senso dell’intestatario, è condotta illecita aggredibile, ma ciò non inficia in alcun modo la validità del mutuo solutorio.
- Il contratto di mutuo – natura giuridica e varie tipologie
Il contratto di mutuo è disciplinato dagli artt. 1813 ss. c.c.
Ai sensi dell’art. 1813 c.c., “il mutuo è il contratto col quale una parte consegna all'altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità.”
Si tratta di un contratto di natura reale, in cui la consegna della cosa – in deroga al principio consensualistico ex art. 1376 c.c. – assurge a elemento costitutivo della fattispecie[1]. Non è sufficiente, dunque, soltanto il consenso delle parti, ma sarà necessaria anche la consegna nei termini appresso chiariti.
Elemento cruciale, soprattutto ai fini della presente analisi, attiene all’accezione del termine “consegna”. In altri termini, ci si è interrogati in merito alle modalità di realizzazione concreta della consegna, onde determinare quando e in che modo possa dirsi perfezionato il contratto di mutuo.
Ebbene, a voler aderire anche all’orientamento della giurisprudenza di legittimità[2], non è necessaria la consegna materiale della res, dovendosi ritenere sufficiente che la stessa sia messa nella disponibilità giuridica del mutuatario. Ciò avviene, allorquando il mutuante crei un autonomo titolo di disposizione a favore del mutuatario. Esempi di immissione nella disponibilità giuridica sono: l’accreditamento su conto corrente intestato alla parte mutuataria ovvero il deposito in un libretto fruttifero di risparmio al portatore ovvero la consegna di un assegno circolare intestato al mutuatario che abbia dichiarato di accettarlo come denaro contante, rilasciandone quietanza a saldo.
Tale ricostruzione sembra, del resto, coerente con l’epoca di moneta elettronica in cui viviamo e in cui sarebbe – a dir poco – anacronistico ipotizzare una consegna materiale. La Corte di Cassazione ha più volte evidenziato come la progressiva dematerializzazione dei valori mobiliari e la loro sostituzione con annotazioni contabili, nonché la normativa antiriciclaggio e le altre misure tese a limitare l'uso di contante nelle transazioni commerciali, abbiano accentuato l'utilizzo di strumenti alternativi al trasferimento di danaro[3].
Ulteriore elemento caratterizzante il mutuo è l’obbligo di restituzione del tantundem che sorge in capo alla parte mutuataria. Ai sensi dell’art. 1814 c.c., questa assume la proprietà delle cose date a mutuo, salvo appunto l’obbligo di restituzione di altrettante cose della stessa qualità e della stessa specie. Per tale ragione, oggetto del mutuo possono essere soltanto il denaro e altre cose fungibili[4].
Si ritiene che il mutuo si sostanzi in un rapporto di durata, a cui è applicabile la disciplina ex artt. 1360, 1373 e 1458 c.c.[5]
Il mutuo è contratto naturalmente oneroso, in cui alla restituzione del tantundem si aggiunge la corresponsione di interessi, come remunerazione per il godimento del denaro o delle res prestate dal mutuante. L’ammissibilità di un mutuo gratuito, accanto a quello oneroso, permette di annoverare tale contratto fra quelli a causa variabile.
Date le caratteristiche sinora evidenziate, il mutuo prevede sovente la concessione di una garanzia ipotecaria da parte del mutuatario, onde assicurare l’adempimento dell’obbligo di restituzione (ed eventualmente la corresponsione degli interessi).
Delineato dunque il sinallagma, che colora il contratto di mutuo, è possibile ora volgere lo sguardo alle varie tipologie di mutuo.
Anzitutto, figura particolarmente nota è il cosiddetto mutuo di scopo. In tale fattispecie la causa tipica del contratto di mutuo è permeata ed arricchita da un quid pluris, consistente nell’utilizzo della somma (o dei beni) mutuata per il perseguimento di un fine prestabilito. In capo alla parte mutuataria, oltre al suddetto obbligo di restituzione, ne sorge uno ulteriore, che si concretizza nell’impiego del quantum mutuato per la realizzazione di un determinato obiettivo.[6]
In altri termini, l'impegno assunto dal mutuatario si inserisce nel sinallagma contrattuale assumendo rilevanza sotto il profilo causale[7].
Diverso dal mutuo di scopo è il mutuo fondiario, disciplinato dagli artt. 38 ss. c.c. TUB. Si tratta del contratto di mutuo che ha per oggetto la concessione, da parte di Banche, di finanziamenti a medio e lungo termine, garantiti da ipoteca di primo grado su immobili, dell’ammontare non superiore al limite determinato dalla Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire. Tale limite è pari attualmente all’80%. Ove tale limite venga superato, la conseguenza è quella della nullità integrale del contratto per violazione di norma imperativa, dovendosi escludere una mera responsabilità della banca. È fatta, comunque, salva la possibilità di conversione del contratto nullo in un finanziamento ipotecario ordinario, ove ne sussistano i requisiti[8].
Secondo la giurisprudenza di legittimità[9], il criterio discretivo fra mutuo fondiario e mutuo di scopo – precedentemente esaminato – va ricercato nella sussistenza di un interesse alla destinazione delle somme erogate sia in capo al mutuante che al mutuatario. Ove tale interesse non sussista in capo alla banca mutuante, specularmente non sussisterà sul mutuatario. La qualificazione come mutuo di scopo si applica quando esiste un obbligo specifico per il mutuatario di utilizzare i fondi per uno scopo determinato, in base all'interesse, diretto o indiretto, del mutuante riguardo a come vengano impiegate le somme. In assenza di tale obbligo, la mancata osservanza della destinazione prevista nel contratto non influisce sulla validità del contratto stesso.
Veniamo ora al cosiddetto mutuo solutorio, fattispecie su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza oggetto del presente commento.
Il mutuo solutorio va inteso come un contratto di mutuo vero e proprio, in cui il mutuatario riceve un accredito della somma di denaro per ripianare la pregressa esposizione debitoria del mutuatario verso il mutuante.
A differenza del mutuo di scopo, come verrà anche infra chiarito, l’utilizzo della somma non attiene al momento genetico del contratto e non ne permea in alcun modo la causa. Esso si pone anzi su un piano logico (e spesso anche cronologico) successivo.
Da ciò consegue che eventuali irregolarità nelle operazioni successive – volte a ripianare la pregressa esposizione debitoria – non incidono in alcun modo sulla validità del contratto di mutuo, che si perfeziona pur sempre con l’immissione del mutuatario nella disponibilità giuridica della somma.
- La giurisprudenza precedente e le diverse posizioni in ordine alla validità del mutuo solutorio
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, passano in rassegna i precedenti giurisprudenziali e le due diverse ricostruzioni in ordine al mutuo solutorio, onde addivenire ad una soluzione.
In particolare, è possibile distinguere fra un’impostazione che nega la configurabilità del mutuo solutorio e una – poi avallata dalla Suprema Corte – che ne afferma la validità.
Orbene, il primo orientamento si sviluppa in anni più recenti[10] e dà risposta negativa al mutuo solutorio, basandosi sulle seguenti argomentazioni.
Anzitutto, in tema di consegna ex art. 1813 c.c., si ritiene che il mutuo solutorio si sostanzi in un'operazione meramente contabile in dare e avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l'avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario. Pertanto, come effetto si avrebbe l’estensione delle scadenze previste per i debiti precedenti, sulla base dell’art. 1231 c.c., in tema di modificazioni accessorie. Queste, per espressa previsione normativa, non producono novazione, sicché il mutuo solutorio determinerebbe i soli effetti del cosiddetto pactum de non petendo ad tempus.[11]
Precipitato logico di questa impostazione è, altresì, che l’unico titolo esecutivo a cui possa farsi riferimento è il precedente contratto di mutuo.
La circostanza che la banca – in quanto creditrice – utilizzi le somme per ripianare il precedente debito di per sé esclude la “consegna” al mutuatario, quand’anche la si intende nella accezione precedentemente delineata.
Il ripianamento di un debito a mezzo di nuovo credito, che la banca già creditrice realizzi mediante accredito della somma su un conto corrente gravato di debito a carico del cliente, non integrerebbe in alcun modo l’immissione nella disponibilità giuridica delle somme. Tale operazione si sostanzierebbe piuttosto in una mera operazione di natura contabile, ad eccezione del caso in cui la posta a credito sia superiore di quella a debito.
L’orientamento che, invece, riconosce la validità del mutuo solutorio è stato tradizionalmente sostenuto[12] ed avallato dalla sentenza in commento.
Anzitutto, si afferma la validità del mutuo solutorio, non essendo lo stesso contrario né alla legge né all’ordine pubblico.
Venendo alla consegna, si ritiene che l’accredito delle somme erogate in conto corrente sia sufficiente a integrare il requisito della datio rei: il contratto di mutuo si perfeziona, prescindendo da qualsivoglia pattuizione in merito all’utilizzo della somma mutuata.
L’avvenuta consegna viene dimostrata dalla circostanza che la somma sia utilizzata per ripianare un debito pregresso e, quindi, rimuova una posta negativa dal patrimonio del mutuatario.
Se questo è vero, non rilevano le preoccupazioni che tale impiego sia lesivo nei confronti dei creditori. Questi potranno pur sempre beneficiare dei rimedi speciali predisposti dall’ordinamento e della sanzione dell’inefficacia.
- Cass. SS. UU, 5 marzo 2025, n. 5841
Il contrasto fra gli orientamenti precedentemente esposti è stato messo in evidenza dall’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione n. 18903 del 10 luglio 2024.
L’atteggiamento ondivago della Corte di Cassazione ha, difatti, spinto i giudici a sollecitare l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite.
Sostanzialmente, vengono posti tre quesiti.
Il primo verte sulla validità o meno del mutuo solutorio e sulla sussistenza del requisito della traditio, allorquando le somme siano destinate ad estinguere debiti pregressi.
Il secondo attiene alla possibilità di considerare il contratto di mutuo quale titolo esecutivo.
Il terzo, subordinato ai precedenti, indaga la possibilità di estendere l’eventuale risposta positiva ai primi quesiti anche al caso in cui sia la banca in maniera del tutto autonoma – indi senza consenso – a destinare le somme mutuate al ripianamento delle passività.
Le Sezioni Unite avallano l’orientamento positivo, tradizionalmente sostenuto.
Con riferimento al primo quesito, viene concentrata l’attenzione sulle modalità di realizzazione concreta della consegna. All’uopo, come già precedentemente osservato, si ritiene necessaria l’immissione del mutuatario nella disponibilità giuridica della res, essendo a tal fine sufficiente la creazione, da parte del mutuante, di un autonomo titolo di disponibilità, tale da determinare l'uscita della somma dal proprio patrimonio e l'acquisizione della medesima al patrimonio della controparte, a prescindere da ogni successiva manifestazione di volontà del mutuante.
Nella fattispecie del mutuo solutorio i dubbi scaturiscono dalla circostanza che la banca si riappropri immediatamente delle somme mutuate, per procedere al ripianamento delle passività.
Adoperando un criterio di analisi logico-giuridico, si nota come il fenomeno della riappropriazione delle somme da parte della banca postuli un precedentemente trasferimento delle stesse (o comunque l’immissione nella loro disponibilità) a favore del mutuatario. Costui vede incrementare il proprio patrimonio, in conseguenza e al momento dell’accredito[13].
Del resto, se si usa il denaro ricevuto a titolo di mutuo per estinguere un debito verso il mutuante, si sta eliminando una posta negativa dal proprio patrimonio[14].
È proprio grazie all’accredito sul conto corrente che il contratto di mutuo può ritenersi validamente concluso. Questo prescinde dal successivo – ancorché cronologicamente contestuale – impiego delle somme da parte della banca per ripianare le passività.
Il mutuo solutorio non integra una fattispecie contrattuale atipica, avendo piuttosto il sintagma una valenza meramente descrittiva. Si tratta pur sempre di un ordinario contratto di mutuo.[15]
Anche dal punto di vista pratico, si osserva che l’operazione viene sovente accompagnata dalla concessione di un’ipoteca nonché da modificazioni del rapporto originario, come la modifica dei tassi di interesse.
Non vi sono ragioni per discorrere di nullità negoziale, in merito al mutuo solutorio. Difatti, la destinazione delle somme al ripianamento di debiti pregressi non rappresenta un fine illecito, essendo anzi propria di alcune figure di finanziamento e rispondente a finalità di ordine pubblico.
Laddove il mutuo solutorio dovesse dar vita ad un atto in frode ai creditori, si potrà allora discorrere di inefficacia, ma non certo di invalidità.
Anche con riferimento al mutuo fondiario, secondo la giurisprudenza di legittimità, lo scopo del finanziamento non assurge a causa del contratto.
L’utilizzo delle somme prestate a mutuo risulta irrilevante, rimanendo estraneo alla causa e al sinallagma contrattuale.
Essendosi data risposta positiva al primo quesito, non può che farsi lo stesso con riferimento al secondo.
Se si riconosce validità al mutuo solutorio, sul presupposto che l’accredito integri il requisito della consegna, allora il contratto di mutuo – validamente perfezionatosi – costituisce titolo esecutivo ove ricorrano i presupposti ex art. 474 c.p.c.
Anche la risposta al terzo quesito affonda le proprie radici nelle soluzioni adottate dalla Corte ed esposte sino ad ora.
Difatti, se si afferma che l’atto dispositivo delle somme sia inidoneo a permeare la causa del contratto, allora non può in alcun modo condizionarne la conclusione.
Quand’anche l’atto di disposizione non venga compiuta dal mutuatario, ciò non nega che lo stesso sia stato immesso nella disponibilità giuridica delle somme.
Chiaro è che la movimentazione illecita di date somme, in quanto non preceduta dal consenso del mutuatario, non è priva di conseguenze. Il mutuatario potrà agire con i rimedi restitutori previsti dalla legge, ma il contratto mutuo non subirà alcuna ripercussione.
- Osservazioni conclusive
Le conclusioni sposate dalle Sezioni Unite sono, a parere di chi scrive, assolutamente condivisibili.
Argomentando, anzitutto, dal punto di vista della natura giuridica del contratto di mutuo, è opinione largamente condivisa che sia sufficiente la creazione, da parte del mutuante, di un autonomo titolo di disponibilità, tale da determinare l'uscita della somma dal proprio patrimonio e l'acquisizione della medesima al patrimonio della controparte.
Ebbene, in un’epoca di moneta elettronica è impossibile non avvedersi della circostanza che la maggioranza dei pagamenti si riduca ad un’operazione contabile. Basti pensare ai pagamenti eseguiti con carte di credito o con sistemi di pagamento digitale. Pare, pertanto, del tutto anacronistico negare che tali strumenti vadano considerati come una vicenda reale e giuridica.
Del resto, l’utilizzo del denaro contante è sempre più scoraggiato, privilegiandosi invece strumenti che consentono la tracciabilità dei pagamenti.
In secondo luogo, il pregio della pronuncia in commento è sicuramente quello di aver tenuto distinto il piano degli elementi essenziali del contratto di mutuo da quello dei successivi atti dispositivi della somma mutuata, privilegiando un approccio logico piuttosto che cronologico.
Difatti, non pare vi sia modo differente di svolgere riflessione giuridica in termini di validità/nullità, se non tenendo a mente i profili costitutivi del contratto di mutuo.
Se, come già osservato, sussistono il consenso e la consegna – elementi essenziali per il perfezionamento dei contratti reali – è possibile spostarsi sull’esame della causa.
Se non vi è l’assunzione di un obbligo da parte del mutuatario di destinare la somma al perseguimento di un determinato fine – come nel caso del mutuo di scopo – è chiaro che i successivi atti dispositivi della somma non permeano la causa del contratto.
A questo punto, diviene chiaro che ogni successiva movimentazione delle somme mutuate, sia essa illecita o meno, non avrà alcuna ripercussione sulla validità del contratto di mutuo.
Quand’anche lo spostamento del denaro avvenga nello stesso momento cronologico dell’accredito, da un punto di vista logico e giuridico, non può negarsi che l’accredito stesso sia comunque avvenuto.
[1] Così GIAMPICCOLO G., Comodato e mutuo, in GROSSO G. e SANTORO PASSARELLI F., Trattato di Diritto Civile, Vol. V, fasc. VII, Vallardi, Milano, 1972, pp. 52 ss.
Si segnala anche una parte minoritaria della dottrina, che ascrive il mutuo nell’alveo dei contratti consensuali. Si veda CARRESI F., Il comodato. Il mutuo, in VASSALLI F., Trattato di Diritto Civile italiano, Vol. VIII t. II fasc. V e VI, UTET, Torino, 1957, pp. 102 ss.
Vi è altresì una posizione intermedia, che ritiene ammissibile a configurabilità di un mutuo consensuale atipico. Cfr. GALASSO A., Mutuo e deposito irregolare. Vol. I (unico pubblicato) - La costituzione del rapporto, Giuffrè, Milano, 1968, 225 ss.; FAUSTI P.L., Il mutuo, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2004, 35 ss.
[2] Si vedano ex multis le seguenti pronunce: Cass. Civ. Sez. III, n. 17194 del 27 agosto 2015, Cass. Civ. Sez. III, n. 9074 del 5 luglio 2001, Cass. Civ. Sez. I, n. 2483 del 21 febbraio 2001; Cass. Civ. Sez. I, n. 6686 del 15 luglio 1994.
[3] Si veda Cass. Civ. Sez. I, n. 38331 del 3 dicembre 2021.
[4] Cfr. CARRESI F., Il comodato. Il mutuo, in VASSALLI F., Trattato di Diritto Civile italiano, Vol. VIII t. II fasc. V e VI, UTET, Torino, 1957, p. 110, il quale nota come l’obbligo di restituzione della singola cosa darebbe vita ad un rapporto diverso, sussumibile nelle fattispecie del comodato o della locazione.
[5] GIAMPICCOLO G., Comodato e mutuo, in GROSSO G. e SANTORO PASSARELLI F., Trattato di Diritto Civile, Vol. V, fasc. VII, Vallardi, Milano, 1972, p. 70; SIMONETTO E., Mutuo, in Enc. Giur., XX, Roma, 1990, p. 6.
Contra v. TETI R., Il mutuo, in Tr. Rescigno, Torino, 2007, p. 623.
[6] Così MAZZAMUTO S., Mutuo (II) Mutuo di scopo, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990, pp. 1 ss.; Cass. Civ. Sez. I, n. 25793 del 22 dicembre 2015.
[7] In giurisprudenza si vedano Cass. Civ. Sez. III, n. 943 del 24 gennaio 2012, Cass. Civ. Sez. I, n. 26770 del 21 ottobre 2019; Cass. Civ. n. Sez. I, n. 15929 del 18 giugno 2018; Cass. Civ. Sez. I, n. 24699 del 19 ottobre 2017.
[8] Si vedano Cass. Civ., Sez. I, n. 17352 del 13 luglio 2017, Cass. Civ. Sez. I, n.19016 del 31 luglio 2017.
[9] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 9838 del 14 aprile 2021.
[10] Si vedano Cass. Sez. I, ordinanza n. 20896 del 05/08/2019, Rv. 655022-01; v. anche Cass. Sez. 3, sentenza n. 7740 del 08/04/2020; Cass. Sez. I, sentenza n. 1517 del 25/1/2021, Rv. 660370-01.
[11] Si tratta del patto con cui il creditore si obbliga a non chiedere l'adempimento al debitore prima di una certa data.
[12] Si vedano Cass. Civ. Sez. I, n. 5193 del 09 maggio 1991; Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 11116 del 12 dicembre 1992; Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 1945 del 08 marzo 1999; Cass. Civ. Sez. III, sentenza n. 23149 del 25 luglio 2022, a sua volta richiamata da Cass. n. 37654 del 30 novembre 2021; Cass. Civ. Sez. III, ordinanza n. 724 del 18 gennaio 2021; Cass. Civ. Sez. I, ordinanza n. 16377 del 09 giugno 2023; Cass. Civ., n. 31560 del 2023; Cass. Civ. n. 5151 del 2024; Cass. Civ., n. 2779 del 2024
[13] Secondo i giudici, è vero che l’accredito sul conto corrente consiste in un’operazione contabile, ma è vero anche che tale operazione non va degradata a fittizia o apparente, determinando essa l’inserimento di una posta attiva in capo al correntista.
[14] Così Cass. Civ., Sez. III, n. 23149 del 25 luglio 2022.
[15] Sulla differenza fra mutuo solutorio e mutuo di scopo si rinvia al par. 2 della presente nota.
Ginevra Brighina